Crediti d’imposta inesistenti e non spettanti

I CHIARIMENTI OFFERTI DALLA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE NELLE SENTENZE NN. 34443, 34444 e 34445/2021

Nel corso degli ultimi anni il legislatore ha introdotto una serie di agevolazioni fiscali consistenti nell’assegnazione di un credito di imposta da utilizzare in compensazione con i debiti tributari (si pensi a titolo esemplificativo ai crediti per le attività di ricerca e sviluppo).

Seppure indubbiamente mosse da apprezzabile intento, una conseguenza da non sottovalutare è che tali misure agevolative portano con sé una maggior probabilità di indebite compensazioni.

Sotto il profilo tributario, le modalità di qualificazione del credito (non spettante o inesistente) non sono irrilevanti e comportano conseguenze sotto diversi aspetti, quali l’applicazione di disposizioni sanzionatorie nonché il raddoppio dei termini di accertamento.

Inoltre, in presenza di indebite compensazioni superiori a 50.000 €, l’illecito è penalmente rilevante e anche in tal sede – a partire dell’entrata in vigore dal 2015 di alcune modifiche al regime penale tributario – la differenziazione tra credito non spettante e inesistente assume rilevanza essenziale.

In base a quanto statuito dall’art. 10 quater d.lgs. 74/2000 infatti, nell’ipotesi in cui il credito indebitamente utilizzato sia di importo annuo superiore all’anzidetto, si rischia di commettere il delitto di indebita compensazione.

Più precisamente, l’art. 10 quater, così come modificato dall’art. 9 d.lgs. 158/2015, prevede due fattispecie punibili: utilizzo indebito di crediti non spettanti e di crediti inesistenti, il primo punito con la reclusione da sei mesi a due anni, il secondo con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.

Nell’ipotesi in cui il credito indebitamente utilizzato in compensazione risulti inesistente, la pena stabilita è  dunque più aspra e l’eventuale pagamento integrale del debito prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado non costituisce una causa di non punibilità (la quale è invece riconosciuta nel caso dei crediti non spettanti sulla base dell’art. 13 d.lgs. n. 74/2000), assumendo piuttosto rilevanza ai soli fini della valutazione delle circostanze attenuanti di cui all’articolo 13 bis d.lgs. n. 74/2000.

La differenziazione è giustificata dal fatto che l’utilizzo in compensazione di crediti inesistenti, rispetto a quelli non spettanti, sia considerata una fattispecie estremamente offensiva, presupponendo che il soggetto abbia agito con un intento fraudolento sicuramente maggiore, creando artatamente ed ad hoc crediti mai esistiti al solo fine di non versare le imposte dovute.

Si segnala comunque che affinché venga integrata tale ipotesi di reato “l’indebita compensazione deve risultare dal modello F24 mediante il quale la stessa è stata realizzata, indicandovi, appunto in compensazione, crediti inesistenti o non spettanti, trattandosi dello strumento imposto dal legislatore tributario per poter eseguire le compensazioni tra debiti e crediti tributari, che, quindi, non possono che essere realizzate attraverso la presentazione di tale modello debitamente compilato, in difetto del quale non può dirsi sussistente una compensazione” (Cass. Pen. 20 giugno 2019 n. 44737).

Tuttavia, la distinzione tra crediti inesistenti e crediti non spettanti non sempre risulta agevole.

Tralasciando in questa sede l’analisi dei criteri con cui tale differenziazione è condotta sul piano penalistico (profilo che meriterebbe a sua volta una ben più approfondita disamina), nell’ambito del quale non esiste una nozione esatta dell’una e dell’altra categoria, si intende con tale trattazione far cenno a tre interessanti sentenze della sezione tributaria della Corte di Cassazione che hanno avviato un nuovo orientamento giurisprudenziale.

Di fatti, con alcune pronunce passate – n. 10112 e n. 19237 del 2017 (conformi a 24093/2020 e 354/2021) – la Suprema Corte di Cassazione aveva affermato, con formula tranchant, che la distinzione tra “credito inesistente” e “credito non spettante” sarebbe “priva di senso logico-giuridico”.

In altri termini aveva ritenuto che, ai fini dell’individuazione del termine di decadenza dall’azione accertatrice, non avesse significato distinguere tra “non spettanza” e “inesistenza” in quanto oggetto dell’accertamento, nel caso di specie, era in ogni caso il “fatto generatore” del credito d’imposta.

Cambiando prospettiva, la Suprema Corte di Cassazione, con le sentenze nn. 34443, 34444 e 34445/2021, depositate il 16 novembre scorso, ha chiarito la differenza tra crediti inesistenti e non spettanti, da cui dipendono diversi regimi disciplinari di recupero e sanzione del loro indebito utilizzo in compensazione.

Ad assumere rilevo nella distinzione di cui sopra – specifica la Corte – è infatti la ricorrenza congiunta di due elementi, dal momento che per qualificare un credito come “inesistente” deve essere riscontrabile l’assenza del presupposto costitutivo nonché sussistere la non riscontrabilità di tale assenza mediante i controlli formali della dichiarazione.

Conseguentemente, sono da porsi fuori della categoria dall’“inesistenza” i crediti emergenti dalle dichiarazioni, privi già sul piano cartolare dei presupposti per la loro maturazione.

Precisazione molto importante, dunque, se si considera – come anticipato – le conseguenze che porta con sé la classificazione nell’una o nell’altra categoria.

Come da principio di diritto affermato nella sentenza n. 34443/2021 “In tema di compensazione di crediti fiscali da parte del contribuente, il discrimine ai fini dell’applicazione della sanzione del 30%, ovvero della sanzione dal 100% al 200% del credito indebitamente utilizzato, come previste dall’art. 13, commi 4 e 5, del D.lgs. n. 471/1997 va individuato, rispettivamente, nell’utilizzo di un credito “non spettante” ovvero di un credito “inesistente”, per tale ultimo dovendo intendersi – ai sensi dello stesso art. 13, comma 5, terzo periodo, D.lgs. cit. – il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo (il credito che non è, cioè, “reale “) e la cui inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del D.P.R. n. 600/1973 e all’art. 54-bis del D.P.R. n. 633/1972”.

Sul piano delle sanzioni amministrative, dunque, laddove vengano utilizzati crediti fiscali inesistenti, la sanzione prevista è compresa tra il 100 e il 200% della misura dei crediti stessi.

Viceversa, nel caso di crediti non spettanti, la sanzione è pari al 30% del credito utilizzato, salvo l’applicazione di disposizioni speciali.

Ancora, nelle due sentenze successive (34444-34445/2021) la Suprema Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: “In tema di compensazione di crediti fiscali da parte del contribuente, l’applicazione del termine di decadenza ottennale, previsto dall’art. 27, comma 16, del D.L. n. 185 del 2008, presuppone l’utilizzo non già di un mero credito “non spettante”, bensì di un credito “inesistente”, per tale ultimo dovendo intendersi – ai sensi dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, del D.Lgs. n. 471/1997 – il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo (il credito che non è, cioè, “reale”) e la cui inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del D.P.R. n. 600/1973 e all’art. 54-bis del D.P.R. n. 633/1972”.

Ciò permette di allora di soffermarsi sull’altra importante ricaduta pratica della distinzione, ossia la possibilità per l’Amministrazione finanziaria – in caso di crediti inesistenti – di disporre di un maggiore termine decadenziale.

In base a quanto previsto dell’art. 27, comma 16, D.L. n. 185/2008, conv. in l. n. 2/2009, nel caso di crediti inesistenti è possibile, infatti, notificare l’atto di accertamento entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo del credito.

Il raddoppio dei termini di accertamento per i crediti inesistenti ha la sua spiegazione nel fatto che il Fisco non riuscirebbe a riscontrare immediatamente e in modo automatico, mediante gli ordinari controlli, il carattere fittizio e indebito della compensazione operata dal contribuente.

Peraltro, nelle ipotesi di utilizzo in compensazione di crediti inesistenti per il pagamento delle somme dovute, in nessun caso si applica la definizione agevolata prevista dagli artt. 16, comma 3, e 17, comma 2, del D.lgs. 472/1997.

In conclusione, mentre sul piano sanzionatorio amministrativo le pronunce della Suprema Corte sembrano aver posto una volta per tutte l’accento sulla distinzione prevista dalla norma, resta ancora dubbio se, sul piano penale, al silenzio della norma circa una precisa definizione terminologica delle due categorie, possa essere punito più gravemente l’utilizzo di un credito pur “inesistente” sul piano tributario, in assenza di alcun artificio o raggiro.

Francesca Prosperi



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