Art.41-bis: origini, profili applicativi e criticità

La tematica che nelle ultime settimane si sta discutendo molto riguarda il c.d. Caso Cospito ed il relativo dibattito interessante il regime di cui all’art. 41-bis della L. 354 del 26 luglio 1975 che l’anarchico ha portato all’attenzione mediatica dal momento in cui, a partire dallo scorso ottobre 2022, ha intrapreso lo sciopero della fame finalizzato alla revoca della misura del “carcere duro”.

Ma da cosa nasce di fatto il maggiore dibattito e cosa prevede in concreto la sottoposizione del condannato al regime del 41-bis?

Come anticipato, il dibattito maggiore nasce dal dover, ad oggi, contemperare l’applicazione del regime di massima sicurezza con le esigenze propriamente legate ai diritti inviolabili della persona quali quello a ricevere cure nonché il diritto alla salute, tutelato dalla Costituzione (art. 32). Alfredo Cospito, infatti, sembrerebbe essere ricorso alla sospensione dell’alimentazione quale protesta nei confronti dell’applicazione nei propri confronti del regime dell’art. 41-bis; sospensione che, avendolo condotto a perdere quasi 40 kg dall’inizio dello sciopero, con necessarie ripercussioni sul suo stato di salute – ragione che lo ha visto traferire dal carcere di Sassari ad Opera – ha suscitato dubbi e critiche in merito alla persistenza del regime del carcere duro ritenuto, da alcuni, in contrasto con la tutela del diritto alla salute.

Per comprendere però a pieno quale sia il quadro di riferimento entro il quale le istituzioni sono chiamate ad operare, occorre in primo luogo ripercorrere le vicende, giudiziarie, sociali e politiche, che hanno condotto all’introduzione dell’art. 41-bis all’interno della Legge sull’ordinamento penitenziario e comprendere a pieno in cosa consiste il predetto regime e quali sono i limiti alla sua concreta applicazione.

Art. 41-bis: quale, il quadro normativo e fattuale prima della sua introduzione?

La norma in argomento faceva ingresso all’interno della Legge 354 del 1975 nell’anno 1986 (legge 663/86), momento in cui veniva introdotta in sostituzione, poiché abrogato, dell’art. 90. In tale frangente, l’art. 41-bis predisponeva una disciplina più dettagliata, di ordine generale, in luogo della procedura prevista per fronteggiare situazioni temporanee di emergenza e relative a specifiche vicende penitenziarie che prevedeva in capo al Ministro per la grazia e la giustizia la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, l’applicazione in uno o più stabilimenti penitenziari, per un periodo determinato, strettamente necessario, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza.

L’abrogazione della vigente disciplina si è posta come un passaggio pressoché obbligato a fronte della situazione di fatto creatasi che, a partire dalla fine degli anni Settanta, aveva visto l’intensificarsi della c.d. sicurezza esterna degli istituti penitenziari sulla scorta degli episodi di evasione che in quegli anni erano stati posti in essere da soggetti detenuti per reati di terrorismo. In tale contesto, si avvertì la necessità di potenziare l’azione di vigilanza sia interna che esterna agli istituti mediante l’emanazione di Decreti Ministeriali – il primo dei quali (D.M. 4 maggio 1977) vedeva il conferimento dell’incarico di coordinamento delle forze di Polizia al Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa – che finirono per creare un vero e proprio sistema di controllo svincolato dalla legge penitenziaria e spesso in contrasto con la stessa ricorrendo, sempre più frequentemente, alla normativa dettata dall’art. 90 Legge 354/1975. Quanto descritto recava con sé critiche non trascurabili la prima delle quali muoveva dalla mancata differenziazione soggettiva dei detenuti i quali subivano trattamenti diversi sulla mera scorta dell’assegnazione ad un determinato “istituto differenziato”, tale poiché inserito nell’elenco allegato ai predetti decreti ministeriali, al di fuori di ogni ed ulteriore controllo di tipo giudiziario.

Una simile situazione è venuta poi a mutare a partire dalla Legge 10 ottobre 1986, n. 663 in virtù della quale sono stati introdotti, nell’ambito della Legge 354, gli artt. 14-bis, 14-ter, 14-quater e 41-bis volti ad imporre una verifica caso per caso in ordine alla pericolosità dei detenuti potenzialmente destinatari di un regime privativo più rigoroso limitandolo (art. 41-bis) ad ipotesi marginali ed, in ogni caso, chiaramente verificabili prevedendo, infatti, che il Ministro di Grazia e Giustizia potesse sospendere, con decreto, in un determinato istituto penitenziario o in parte di esso, l’applicazione delle normali regole di trattamento dei ristretti quando: i. si vertesse in casi eccezionali di rivolta o in altre gravi situazioni di emergenza; ii. si vertesse nella necessità di sospendere le normali regole di trattamento per ripristinare l’ordine e la sicurezza.

Come si è arrivati all’attuale formulazione dell’art. 41-bis?

Dopo la sua introduzione del 1986, l’art. 41-bis è stato integrato dall’aggiunta del comma 2 – prevista dall’art. 19, D.L. 8 giugno 1992, n. 306 – il cui testo ricalcava, salvo limitate differenze, il previgente dettato dell’abrogato art. 90 prevedendo infatti che a fronte di gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica, anche a richiesta del ministero dell’Interno, il Ministero di grazia e giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma 1 dell’art. 4-bis, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possono porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza.

Il motivo del suo ampliamento è sicuramente da ricondurre ai fatti di cronaca che hanno interessato in particolar modo l’inizio degli anni Novanta i quali hanno condotto, per quanto in questa sede interessa, a ripensare al regime penitenziario emergenziale vigente (art. 41-bis, comma 1) introducendo una misura rivolta specificamente a particolari categorie di detenuti condannati per specifiche ipotesi criminose normalmente riconducibili alla criminalità organizzata e ciò non tanto quale mezzo indirizzato al miglior contenimento custodialistico dei singoli ristretti ma quale deterrente nei confronti degli associati ancora operanti in libertà.

Il testo definitivo – rectius, ad oggi in vigore – è stato frutto di ulteriori integrazioni avvenute nel tempo le quali hanno condotto a ricomprendere, tra i destinatari del regime sospensivo delle normali regole di trattamento penitenziario, i detenuti e gli internati per delitti di terrorismo ed eversione con collegamenti con la relativa criminalità organizzata.

In cosa consiste l’applicazione del regime previsto dall’art. 41-bis – Situazioni di emergenza?

In primo luogo va precisato che la sospensione delle normali regole di trattamento penitenziario, la quale comporta le restrizioni necessarie ad assicurare il soddisfacimento delle esigenze di ordine e sicurezza richieste dal comma 2, può essere disposta per un periodo non superiore a quattro anni, prorogabili per successivi periodi di due anni ove risulti, al termine del precedente periodo, che il destinatario sia ancora capace di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terrorista o eversiva.

Analizzando, invece, il regime restrittivo in senso stretto, i detenuti e/o gli internati sottoposti al regime del 41-bis si evidenziano i seguenti caratteri (comma 2-quater):

  • I destinatari devono essere ristretti in istituti dedicati esclusivamente ad ospitare i soli interessati dal trattamento o all’interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell’istituto nonché custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria;
  • Sono previste speciali misure di sicurezza interna ed esterna all’istituto al fine di prevenire contatti con l’organizzazione, contrasti con eventuali organizzazioni contrapposte ed interazioni con altri detenuti appartenenti alla medesima organizzazione o ad altre ad essa alleate;
  • Restrizione del numero di colloqui effettuabili ad un numero pari ad uno mensile da tenersi prevalentemente con familiari e/o conviventi, salvi casi eccezionali da autorizzarsi. I colloqui, sia fisici che mediante telefono, sono registrati e sottoposti a controllo audiovisivo;
  • Limitazione nella ricezione di beni e somme proveniente dall’esterno;
  • Visto di censura sulla corrispondenza, salvo casi particolarissimi;
  • Limitazioni della permanenza all’aperto: non più di quattro persone; non più di due ore giornaliere.

Dal quadro sin qui delineato appare indubbio che l’applicazione del regime previsto dall’art. 41-bis sia più restrittivo del regolare regime carcerario ma tale particolarità risulta giustificata dal riscontro di determinati “indici” attestanti la presenza o la permanenza di ragioni ostative ad assicurare le esigenze di ordine e sicurezza richieste dall’ordinamento.

Guardando al caso particolare, infatti, laddove fosse confermata la riconducibilità delle minacce e degli attentati che negli ultimi mesi hanno interessato figure di rilievo della politica e dell’economia, non solo nazionale, a delle specifiche direttive impartite dall’anarchico sebbene sottoposto al regime restrittivo, è pacifico affermare che da un punto di vista meramente giuridico risultino soddisfatti i requisiti in presenza dei quali accordare la permanenza in regime emergenziale. Vero è che lo sguardo alla tutela dei diritti fondamentali risulta sempre un passo obbligato in uno stato di diritto che voglia porsi come garantista.

Sulla scorta di quest’ultima riflessione, vorrei concludere facendo riferimento al contenuto di un post pubblicato su Facebook nel 2017 da Enrico Mentana a seguito della pronuncia della Corte di Cassazione con la quale si affermava che anche Totò Riina, all’epoca gravemente malato, avesse diritto ad una morte dignitosa e ciò esclusivamente al fine di proporre al lettore, uno spunto di riflessione ulteriore rispetto al dibattito mediatico che la vicenda Cospito sta suscitando. Nel citato post, infatti, si leggeva: “Per essere molto chiari: potremmo passare molto tempo a raccontarci cosa meriterebbe di orribile Totò Riina per tutto quello che ha fatto e deciso da capo di Cosa Nostra. Potremmo evocare tutte le morti che ha provocato, tutte le vite che ha segnato, tutto il male che ha portato alla Sicilia e all’Italia”… “Ma, appunto, siamo in Italia, uno stato di diritto, quello in cui i cittadini magari odiano i politici ma amano tantissimo la Costituzione. E quella Costituzione parla chiaro, e ci ricorda quello che dovremmo sapere già da soli, che il diritto non è vendicativo, ma severo. E l’articolo 27 ci spiega che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte“. Il direttore del tg di La7 aggiungeva: “Perfino Totò Riina, che ha fatto sciogliere bambini nell’acido, che ha fatto saltare in aria con uomini e donne della scorta Falcone, e sua moglie, e Borsellino, che ha fatto uccidere il generale Dalla Chiesa e sua moglie, e mille altri orrori, perfino questa impersonificazione del male ha diritto al rispetto delle leggi. Ma senza sconti, senza scarcerazioni o domiciliari. Senza furbizie. Con la forza del diritto”. Concludeva Mentana: “Come ogni ergastolano di cui è possibile vedere il vero approssimarsi della fine, si prepari per allora il suo trasferimento presso i suoi familiari. Ma fino a quel momento non è nemmeno da mettere in discussione la prosecuzione del 41 bis. Per rispetto di chi è caduto, di chi lo ha combattuto, e di tutti noi. La nostra forza è la legge, non qualche sgangherata riedizione in chiave elettoralistica del codice di Hammurabi”.

Vedremo nelle prossime settimane a quale decisione giungeranno il Guardasigilli e la Corte di Cassazione.

Adele Antonini



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