Una recente pronuncia della Suprema Corte ha sancito che per la prova dello straining, così come più in generale per il mobbing, ai fini del risarcimento del danno il lavoratore è tenuto a provare l’animus nocendi del datore di lavoro, in particolare nel caso in cui la condizione di disagio sia stata causata dal cambio della posizione lavorativa nell’ambito di un processo di riorganizzazione e ristrutturazione dell’impresa nella sua interezza (Cassazione civile, Sez. lav., ordinanza n.2676/2021).

La pronuncia in questione, preceduta da altri precedenti conformi, costituisce spunto per esaminare la fattispecie del centro di imputazione datoriale unico (v. anche Cass. 31 luglio 2017, n. 19023 Cass. 31 maggio 2017, n. 13809 Cass. 20 dicembre 2016, n. 26346 Cass. 12 febbraio 2013, n. 3482).

IL TEMA

L’ordinanza affronta il tema dello straining nell’ambito della riorganizzazione dell’impresa e mette in luce le difficoltà, a livello probatorio, riscontrate dal lavoratore nel dimostrare l’esistenza di un pregiudizio alla salute o alla sua sfera esistenziale cagionato dal datore di lavoro in violazione dell’art. 2087 c.c.

L’applicazione rigorosa dell’art. 2697 c.c. ha portato a ritenere, nel caso di specie, che ai fini del risarcimento del danno non basta provare il demansionamento, essendo necessario accertare anche la presenza dell’intento vessatorio del datore di lavoro. L’adibizione a mansioni inferiori e dequalificanti non costituisce, infatti, circostanza sufficienti all’accoglimento di tale istanza.

La soluzione accolta dalla Corte si fonda su una rigida interpretazione delle norme sull’onere probatorio ed è diretta a contrastare la tendenziale proliferazione dei contenziosi in materia di mobbing. Non tutte le condizioni di lavoro possono costituire straining, ma soltanto quelle determinate da comportamenti datoriali sorretti da un dolo specifico e, pertanto, in assenza di prova, il malessere lavorativo sarà considerato come un mero un disagio comune alle situazioni lavorative ordinarie.

Tuttavia, il confine appare incerto, al punto che l’esperienza pratica mette in evidenza la sussistenza di aree grigie nelle quali queste figure finiscono col sovrapporsi.

L’onere probatorio del lavoratore opera sia nel caso in cui trovi applicazione la disposizione dell’art. 2103 c.c. post-statutaria (applicabile alla vicenda in commento, sia nel caso in cui trovi applicazione la disposizione dell’art. 2103 c.c. successiva all’intervento riformatore dell’art. 3, D.Lgs. n. 81/2015 (Jobs act).

LO STRAINING

Lo straining rientra, insieme al mobbing, nell’alveo dello stress lavoro-correlato ed è stato definito dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritarie come una forma di “mobbing attenuato” dotato, cioè, di un grado di conflittualità lavorativa di minor intensità ma sempre fonte di responsabilità del datore di lavoro a titolo contrattuale ed extracontrattuale, ai sensi dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 2043 c.c.

A partire dal 2005, grazie a una nota sentenza di merito (Trib. Bergamo 21 aprile 2005, n. 286, in Foro it., 2005, I, 3356), ha assunto anche rilevanza giuridica, ma è rimasto sprovvisto di una definizione legislativa, lacuna che è stata colmata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, le quali, nell’affermare la risarcibilità del conseguente danno, hanno descritto lo straining nei termini di una “situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante è caratterizzata anche da una durata costante”, nella quale il lavoratore versa in una condizione di persistente inferiorità rispetto all’autore della condotta.

Sotto il profilo temporale, è generalmente caratterizzato dall’istantaneità della condotta: il comportamento datoriale si esaurisce in un unico episodio isolato capace di generare una situazione di perdurante disagio nel destinatario, oppure prende forma attraverso più azioni prive di continuità, come può accadere quando gli atti siano posti in essere in modo non sequenziato, allontanandosi dal mobbing, che si configura, invece, come un insieme coordinato di comportamenti sorretti da unico disegno persecutorio del datore di lavoro, di un superiore gerarchico (“verticale”) o di un collega (“orizzontale”), con una condotta articolata, intenzionalmente volta all’emarginazione o, nei casi più gravi, all’estromissione attraverso il licenziamento ovvero le dimissioni (“strategico”).

Il riconoscimento giuridico dello straining nasce dal timore che i comportamenti isolati e, dunque, non rientranti nel perimetro del mobbing, restino impuniti, nonostante rechino un grave pregiudizio. Tuttavia, uno dei profili di maggior criticità nell’individuazione del fenomeno è rappresentato dalle modalità con le quali può manifestarsi, poiché, come si è evidenziato, sono tali da renderlo facilmente confondibile con altre figure. D’altro canto, è difficile comprendere quale sia la soglia di tollerabilità dello stress lavorativo e quando sia foriero di un pregiudizio alla salute. La mancanza di una definizione normativa del fenomeno ha senz’altro reso più difficile, sul piano pratico, tracciare i confini di tale situazione patologica.

DIFFERENZE CON IL MOBBING

La soluzione a cui è giunta la Corte Suprema di Cassazione rende difficile cogliere la linea di confine tra il mobbing e lo straining.

Nel caso del mobbing, ai fini della configurabilità della condotta posta in essere dal datore di lavoro o dal superiore gerarchico, occorre accertare la presenza di più elementi e, in particolare: comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente ma che nel complesso rivelino un intento vessatorio; un evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; il nesso eziologico tra il comportamento e il pregiudizio alla integrità psicofisica del lavoratore; deve inoltre essere fornita la prova del richiamato elemento soggettivo, secondo la ormai prevalente tesi “soggettiva”, che pone l’accento sulla necessaria dimostrazione dell’animus nocendi.

La giurisprudenza maggioritaria aveva ritenuto che per lo straining, trattandosi di condotte isolate e prive di continuità temporale, non fosse necessario provare la presenza di un intento persecutorio, affermando, in accoglimento della diversa tesi “oggettiva”, che i comportamenti rientranti nell’ipotesi in esame sono ex se dotati di carattere vessatorio o persecutorio, senza la necessità di una specifica prova in tal senso.

Tali soluzioni interpretative, che hanno portato ad una tutela più ampia del lavoratore, sono state abbandonate dall’ordinanza in esame che, con l’obiettivo di evitare la proliferazione delle voci di danno risarcibili, trascura il fatto che la prova dell’intenzionalità di un singolo atto è più insidiosa rispetto a quella di un disegno vessatorio che unisce più azioni tra loro. Oltretutto, l’affermazione della sussistenza del medesimo onere probatorio per entrambe le ipotesi induce a domandarsi se la figura dello straining sia destinata a restare assorbita da quella del mobbing.

STRAINING E DEMANSIONAMENTO

Nell’analizzare le singole azioni che costituiscono lo straining, similmente a quanto si rinviene nel caso di mobbing, non sempre ci si trova dinanzi a un atto manifestamente illegittimo e produttivo di un danno risarcibile. In particolare, tale criticità emerge con riferimento al demansionamento, ipotesi tendenzialmente vietata dalla previgente formulazione dell’art. 2103 c.c. (ex art. 13 St. lav.), ma che conosce oggi una limitata area di liceità: nella sua attuale formulazione, l’art. 2103, comma 2, c.c. (come novellato dall’art. 3, D.Lgs. n. 81/2015) consente, in presenza di modifiche degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione lavorativa del dipendente, di adibire il lavoratore a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella stessa categoria legale.

È quindi difficile comprendere quando l’adibizione del lavoratore a mansioni diverse, frustranti sotto il profilo professionale e umano, assuma le vesti dello straining e costituisca anche un danno non patrimoniale risarcibile.

Va inoltre evidenziata la sottile differenza, sussistente anche prima della novella apportata dal Jobs act alla norma codicistica, tra straining e demansionamento.

Tale distinzione emerge dal caso preso in esame dall’ordinanza in commento, nel quale, nell’ambito di una più complessiva riorganizzazione dell’impresa il ricorrente è stato adibito nel febbraio 2003 e fino al 2007 allo svolgimento di mansioni che, non tanto dal punto di vista dell’inquadramento professionale, quanto della sua professionalità, sono risultate dequalificanti. Sulla base di tale circostanza, è stato accertato il diritto al risarcimento del danno alla professionalità per il predetto arco temporale, non anche il diritto al risarcimento del danno da straining.

La decisione in commento pone l’accento sulla differenza tra i due pregiudizi, alla professionalità e da straining, che possono scaturire dalla medesima causa, cioè dal demansionamento.

L’ordinanza offre l’occasione di riflettere su tale nozione, che nell’attuale contesto storico si pone oltre ai confini del tradizionale concetto di mansioni e di inquadramento del personale, dovendo tenersi conto della dimensione soggettiva del lavoratore e del percorso individuale dallo stesso compiuto.

Nella pronuncia si afferma che il danno alla professionalità deriva non tanto dall’assegnazione di mansioni di livello inferiore, quanto dall’impoverimento del bagaglio di competenze del lavoratore conseguente allo svolgimento di attività dequalificanti, a prescindere dall’inquadramento professionale.

Nel caso di specie, pur applicandosi la versione dell’art. 2103 c.c. post statutaria ma ante Jobs act, l’assenza di un’idonea attività formativa, unitamente alle altre circostanze messe in luce nella decisione, ha facilitato l’accoglimento dell’istanza risarcitoria del lavoratore per il lamentato danno alla professionalità.

LA PROVA DELL’INTENTO VESSATORIO

Come anticipato, nel caso de quo la circostanza dell’avvenuta riorganizzazione dell’impresa ha consentito di escludere, in assenza di una diversa prova da parte del ricorrente, la vessatorietà della condotta datoriale presente nello straining, a dimostrazione che la prova dell’intento persecutorio del datore di lavoro risulta difficilmente raggiungibile, specie laddove non si abbia a che fare con una serie di atti tra loro coordinati, ma con un singolo episodio, sebbene complesso e costituito da una serie di azioni integrate.

Le circostanze allegate dal ricorrente, quali l’esclusione del lavoratore da diverse iniziative e attività, la durata e la gravità del demansionamento, dalle quali sarebbe stato possibile desumere attraverso il meccanismo delle presunzioni la sussistenza di un’intenzionalità della condotta, non sono state ritenute sufficienti.

L’ampia portata dell’art. 2087 c.c. ha spinto la giurisprudenza a tracciare i confini tra le situazioni di stress positivo e quelle di stress negativo, entro le quali sono riconducibili le figure del mobbing e dello straining. Tale operazione ha consentito di distinguere tra i pregiudizi meritevoli di ricevere una tutela risarcitoria e quelli non risarcibili.

In assenza di un intervento da parte del legislatore, il rischio è quello di veder privato il lavoratore di una tutela risarcitoria, laddove, come nel caso di specie, non si tenga debitamente conto della condizione di fisiologica debolezza della persona che ha subito lo straining la quale, diversamente da quella discriminata, non beneficia di alcun supporto a livello processuale.

Filippo Pasqualetti



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