Novità in materia di quantificazione del danno da demansionamento

La sentenza del 16 settembre 2021 della Corte di Appello di Catanzaro ha recentemente svolto un’interessante opera di coordinamento e razionalizzazione di un tema sempre molto attuale in materia giuslavoristica, ossia l’identificazione del criterio da utilizzare per la quantificazione del risarcimento del danno da demansionamento.

Secondo la Corte, il criterio è quello dell’importo previsto per il danno biologico da inabilità temporanea assoluta dall’art. 139, comma 1, D.Lgs. n. 209/2005, scorporato della componente già assorbita dal risarcimento da riconoscere a titolo di danno biologico permanente, tenuto conto della durata del periodo di demansionamento. Questa pronuncia riveste una certa importanza in quanto si discosta notevolmente dall’orientamento prevalente fino a oggi nella giurisprudenza, che utilizza come parametro, non senza aver sollevato critiche in dottrina, la retribuzione di fatto goduta dal lavoratore.

IL CASO

Nel caso in esame, il lavoratore aveva chiesto il risarcimento dei danni non patrimoniali e patrimoniali. Il Tribunale di Cosenza aveva respinto il ricorso. Il lavoratore impugnava la sentenza dinanzi alla Corte di Appello di Catanzaro.

I giudici di secondo grado accoglievano il ricorso. In particolare, la Corte di Appello riteneva che il lavoratore avesse subito dei danni all’integrità psicofisica, anche in ragione delle mansioni dequalificanti che aveva dovuto svolgere. Il danno biologico veniva quantificato sulla base delle tabelle milanesi. Secondo la Corte di Appello, l’importo del risarcimento del danno andava decurtato in ragione della natura lavorativa della patologia sofferta e dell’applicazione dei principi in tema di danno differenziale. In particolare, il collegamento diretto e determinante tra la prestazione lavorativa e l’evento scatenante la reazione patologica, rendeva evidente la non applicabilità del regime di esonero parziale di responsabilità del datore di lavoro in presenza dell’assicurazione INAIL, in quanto sussisteva la pregiudiziale penale di cui all’art. 10 T.U n. 1124/1965.

IL DANNO DA DEMANSIONAMENTO

Quanto al danno da demansionamento, la Corte di Appello individuava quali indici presuntivi della prova del demansionamento:

(i) l’elevato livello di inquadramento formale del ricorrente e l’adibizione a compiti impiegatizi di segreteria e di assistenza a colleghi di qualifica inferiore,

(ii) la durata del demansionamento (5 anni),

(iii) il silenzio datoriale sulle richieste di adeguamento delle mansioni,

(iv) il concomitante sviluppo della patologia psichiatrica, l’età e l’anzianità del lavoratore.

Per quanto riguarda invece i criteri per la quantificazione del danno da demansionamento, la Corte decideva di fare riferimento all’importo previsto per il danno biologico da inabilità temporanea assoluta ex art. 139, comma 1, D.Lgs. n. 209/2005 (scorporato dalla componente già assorbita dal risarcimento a titolo di danno biologico permanente e tenuto conto della durata del periodo di demansionamento).

La Corte di Appello si discosta quindi dall’orientamento prevalente della giurisprudenza, secondo cui la liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. deve essere effettuata sulla base della percentuale della retribuzione.

Come è noto, il lavoratore che subisce una modifica delle proprie mansioni in violazione della disciplina di legge applicabile, può agire per essere reintegrato nelle precedenti mansioni e per ottenere il risarcimento del danno subito. Il lavoratore può agire per il risarcimento del danno patrimoniale derivante dalla violazione della disciplina dell’art. 2103 c.c. Il danno in questione ha natura contrattuale: l’art. 2103 c.c. pone un’obbligazione di fonte legale che integra il contratto di lavoro. L’inadempimento determina la possibilità di chiedere il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1218 c.c.

La richiesta di risarcimento del danno patrimoniale derivante dalla violazione della disciplina dell’art. 2103 c.c. pone peraltro alcuni problemi pratici: durante il demansionamento illegittimo, il datore di lavoro paga la normale retribuzione. Non è quindi immediatamente percepibile un’incidenza negativa sul patrimonio del lavoratore. La prova di questa incidenza negativa è tuttavia essenziale per accedere al rimedio risarcitorio. Il lavoratore deve fornire la prova del danno-conseguenza e indicare idonei criteri di quantificazione.

In particolare, la quantificazione del danno avviene in via equitativa. Secondo un orientamento ormai consolidato, il danno patrimoniale conseguente al demansionamento si quantifica sulla base di una percentuale della retribuzione corrispondente all’entità della dequalificazione, moltiplicata per il numero di mesi in cui si è protratta.

I PRECEDENTI

Di seguito, alcuni precedenti nei quali è stato applicato questo metodo di quantificazione in via equitativa:

Cass. 13 ottobre 2016, n. 20677: la quantificazione del danno è stata calcolata nei 2/5 della retribuzione lorda per 3,5 anni di durata del demansionamento.

Trib. Taranto 27 novembre 2013: Euro 1.000, moltiplicati per i 3 mesi del più intenso demansionamento; ed Euro 500, moltiplicati per i 13 mesi del demansionamento meno grave, per un totale di Euro 9.500. Sul punto il Tribunale di Taranto ha osservato: “Sul piano della quantificazione, l’entità del danno deve essere determinata in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 cc, prendendo in considerazione l’incidenza che l’accertato demansionamento, alla luce delle sue caratteristiche temporali e modali, ha determinato sul bagaglio professionale del dipendente e sulle sue prospettive di carriera e pervenendo, sulla base di una valutazione globale, ad una quantificazione idonea ad assicurare l’integrale reintegrazione del pregiudizio sofferto, evitando, al tempo stesso, una moltiplicazione puramente nominalistica, delle voci risarcitorie. A tal fine ritiene questo giudice che, se da un lato, la misura della dequalificazione e la sua conoscibilità da parte dell’intera platea dei lavoratori impiegati presso il reparto in questione (trattandosi di attività da svolgere necessariamente “all’aperto’” e quindi alla costante presenza di terzi) depongono per la gravità del demansionamento, dall’altro lato, non si può non considerare, ai fini della concreta individuazione del danno che ne è conseguito, come la stessa dequalificazione si sia protratta per un modesto intervallo temporale. In ragione di ciò, ritiene questo giudice congruo riconoscere, per il risarcimento del suddetto danno, l’importo di euro 1.000 per ciascuno dei tre mesi in cui l’A.F. è stato adibito ad attività di bonifica delle aree limitrofe ai binari e di euro 500,00 per ciascuno dei tredici mesi in cui lo stesso è risultato addetto al verde presso l’area piazzale, per un importo complessivo di euro 9.500,00”.

Trib. Napoli 8 febbraio 2012: 50% della retribuzione lorda mensile per 15 mesi di demansionamento.

Trib. Tivoli 28 ottobre 2011: 10% della retribuzione lorda mensile per 18 mesi di demansionamento. Sul punto il Tribunale di Tivoli ha osservato: “Dalla condotta illecita della convenuta deriva anche l’obbligo di risarcire il danno causato alla dequalificazione professionale dell’attore. Tale responsabilità, in ossequio al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha natura contrattuale, discendendo dall’inadempimento dell’obbligo di cui all’art. 2103 c.c.; il pregiudizio ha inoltre, carattere patrimoniale, risolvendosi nella lesione ad un bene, la professionalità, suscettibile di valutazione in termini economici e il danno può essere liquidato secondo un criterio equitativo. […] Il ricorrente, […] con le precedenti mansioni, godeva di notevoli possibilità di crescita professionale, curando la contabilità, i rapporti con le banche, i clienti e i fornitori, mentre i nuovi compiti, privi di contenuto concettuale e risolventesi in mansioni di mero ordine, protratti per un periodo considerevole (almeno 18 mesi) non possono non avere causato un ridimensionamento delle prospettive di sviluppo della personalità lavorativa dell’attore. In ordine ai parametri utilizzabili per liquidazione equitativa del danno, la corte di cassazione, con sentenza 10/2002, ha chiarito come possa farsi riferimento ad una percentuale della retribuzione globale lorda spettante al danneggiato, in misura da determinarsi tenendo conto di tutte le circostanze del caso. Ritiene il giudice che, nella fattispecie, sia congrua una determinazione del danno risarcibile in misura corrispondente al 10% della retribuzione globale lorda percepita dal ricorrente durante il protrarsi dell’inadempimento della datrice al dovere di cui all’art. 2103 c.c. […] Ne consegue che, quantificata in ricorso […], la retribuzione lorda mensile percepita dall’attore in Euro 2.455,36 e, accertata la durata del demansionamento in 18 mesi […], l’importo spettante a titolo di risarcimento del danno patrimoniale alla professionalità ammonta a Euro 4.419,65”.

Trib. Trieste 10 dicembre 2003: 100% della retribuzione mensile per 26 mesi di demansionamento. Sul punto il Tribunale di Trieste ha osservato: “Il demansionamento subito dal dott. P. rappresenta un caso di svuotamento quasi totale di ruolo e di mansioni […]. Nel caso in esame, considerata la gravità della dequalificazione, la serrata successione dei provvedimenti demolitori della professionalità, il contesto della organizzazione, […] l’intensità del dolo […] si ritiene equo quantificare la percentuale del danno in misura pari al 100% della retribuzione mensile. […] Dunque, certamente a partire dal […] 15 ottobre 2001, S.P. ha diritto al risarcimento del danno da demansionamento nella misura pari al 100% della retribuzione mensile”.

LA SOLUZIONE ALTERNATIVA

La soluzione alternativa della sentenza in commento può essere vista come il tentativo, da un lato, di ancorare il danno da demansionamento a criteri di maggiore oggettività, così come la volontà di inquadrare il pregiudizio in questione nell’ambito del danno non patrimoniale, anziché dare prevalenza alla componente patrimoniale, evitando così le duplicazioni risarcitorie che spesso si verificano in questi casi.

Infatti, in molte fattispecie il demansionamento avviene unicamente in ambito “fattuale”, senza necessariamente coinvolgere l’aspetto retributivo, per cui vi può essere il caso che il lavoratore, pur svolgendo di fatto delle mansioni inferiori, sia inquadrato comunque nel corretto livello di retribuzione. In tal caso, il danno da demansionamento non deve compensare un minore trattamento economico, bensì andare a ricoprire quella parte di danno non patrimoniale da lesione della professionalità, che si aggiunge (e in parte è assorbito) dalla componente del danno biologico. Spesso invece non soltanto si assiste alla moltiplicazione del danno patrimoniale anche in assenza dei presupposti, ma anche la componente non patrimoniale ulteriore viene semplicemente sommata al danno biologico, con il risultato che i pregiudizi non soltanto raddoppiano senza ragione, ma possono addirittura risultare quadruplicati.

Nella sentenza in esame, la Corte di Appello di Catanzaro si discosta da ciò. In particolare, la Corte evidenzia come questo criterio presenta il duplice inconveniente:

(i) determina un’ingiustificata disparità di trattamento, dal momento che porta a un risarcimento differenziato in ragione della retribuzione;

(ii) parametra il danno alla retribuzione o a una sua aliquota in maniera del tutto arbitraria.

In ragione di quanto sopra, la Corte di Appello ha applicato un criterio diverso e dunque l’importo previsto per il danno biologico da inabilità temporanea assoluta dall’art. 139, comma 1,D.Lgs. n. 209/2005, scorporato della componente già assorbita dal risarcimento da riconoscere a titolo di danno biologico permanente (tenuto conto della durata del periodo di demansionamento).

Filippo Pasqualetti



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