Referendum Eutanasia Legale

REFERENDUM ABROGATIVO DELL’ART. 579 C.P.: verso l’“Eutanasia Legale”? La Consulta si esprime: è inammissibile.

Con oltre 1,2 milioni di firme, si è conclusa la raccolta dei consensi per la richiesta di referendum parzialmente abrogativo dell’art. 579 c.p. promossa e condotta in prima linea dall’Associazione Luca Coscioni. Dopo il vaglio di legittimità della Cassazione, lo scorso 15 febbraio si è tenuta l’udienza in camera di consiglio presso la Corte Costituzionale la quale è stata chiamata a compiere una valutazione di ammissibilità del quesito referendario.

Scarica la sentenza della Corte Costituzionale

Ma, al di là degli aspetti puramente formali e consistenti – in caso di esito vittorioso del referendum – nell’abrogazione parziale della norma incriminatrice della fattispecie rubricata “omicidio del consenziente” – quali le conseguenze pratiche di un simile approdo? Avremo davvero raggiunto il prefissato traguardo di ammettere anche nel nostro paese la c.d. eutanasia legale?

Prima di rispondere al quesito ed analizzare gli approdi della Consulta, appare preliminare fare chiarezza su concetti spesso tra loro confusi.

Il termine “eutanasia” (dal greco eu-thanatos – “buona morte”) indica l’atto di procurare intenzionalmente e nel suo interesse la morte di una persona che ne faccia esplicita richiesta. Si distingue dal “suicidio assistito” ovvero dall’atto del porre fine alla propria esistenza in modo consapevole mediante l’autosomministrazione di dosi letali di farmaci con l’“assistenza” tendenzialmente di un medico (in questo caso si parla di suicidio medicalmente assistito) o di altra figura che rende disponibili le sostanze necessarie, in quanto non richiede la partecipazione attiva del soggetto che ne fa richiesta necessitando, invero, dell’attivo intervento di un Terzo.

La pratica dell’eutanasia non è ammessa nel nostro Paese che considera un vero e proprio reato porre in essere tale condotta la quale viene sussunta nell’alveo degli articoli 579 (I. Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni. II. Non si applicano le aggravanti indicate nell’articolo 61. III. Si applicano le disposizioni relative all’omicidio [575-577] se il fatto è commesso: contro una persona minore degli anni diciotto; contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno [613,2]) e 580 (I. Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima [583]. II. Le pene sono aumentate [64] se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell’articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità d’intendere o di volere [85], si applicano le disposizioni relative all’omicidio [575-577]) del codice penale. Diversamente dall’eutanasia, il suicidio assistito è invero legittimato, seppur non praticato, essendo da attribuire alla sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019 l’individuazione di quattro requisiti in presenza dei quali si giustifica la condotta, quali: i. la presenza di una patologia irreversibile; ii. una grave sofferenza fisica e psichica; iii. la piena capacità di prendere decisioni libere e consapevoli; iv. la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale.

Accanto alle predette soluzioni sul fine vita, si individuano infine la “sedazione palliativa” e la “sospensione delle cure”. La prima è intesa come la riduzione intenzionale della vigilanza con mezzi farmacologici, fino alla perdita di coscienza, allo scopo di ridurre o abolire la percezione di un sintomo, altrimenti intollerabile per il paziente; la seconda è invece riconducibile al diritto sancito dall’art. 1 della legge 219/2017, che stabilisce che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”.

Nella vigenza di una simile impostazione, si è quindi inserita la richiesta referendaria di parziale abrogazione dell’art. 579 c.p. la quale, invocando il principio di autodeterminazione e ancor più la piena disponibilità del diritto alla vita, intendeva eliminare dalla formulazione normativa il solo inciso “la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell’articolo 61. Si applicano” ottenendo la seguente novella: “Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’omicidio [575-577] se il fatto è commesso: contro una persona minore degli anni diciotto; contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno [613,2]”.

Il testo risultante dall’auspicata abrogazione si sarebbe però posto in aperta sovversione del fondamento giuridico della norma la quale è stata, fin dalla propria origine, concepita sulla scorta di quel paternalismo penalistico volto – nel caso in argomento, in via indiretta – a tutelare (rectius, proteggere) il soggetto da decisioni in suo danno considerato, infatti, che tale fondamento giuridico non è pensato in termini di autodeterminazione quanto piuttosto in termini di vera e propria tutela della vita, intesa come diritto costituzionale intangibile pertanto indisponibile. In questi termini, è comprensibile il timore di addivenire ad una c.d. eutanasia libera, svincolata da indagini mirate sul consenso e sulla sua effettività e potenzialmente in grado di legittimare l’omicidio di chi ne faccia, in via generica, espressa richiesta.

Pericolo, necessariamente da valutarsi alla luce dei pochi ma in ogni caso presenti, indici normativi e giurisprudenziali gravitanti introno alle fattispecie di cui agli artt. 579 e 580 c.p.; il riferimento è in primo luogo alla richiamata pronuncia della Consulta (n. 242/2019) la quale, aprendo a determinate condizioni uno spazio per le ipotesi di aiuto al suicidio, ha comunque introdotto un’eccezione alla disciplina vigente senza intaccare l’affermazione dell’indisponibilità della vita, anch’essa sottesa all’incriminazione di cui all’art. 580 c.p. e le medesime argomentazione apparirebbero spendibili anche per quanto attiene all’eutanasia.

Non solo; a parere dei promotori, il timore di un’eutanasia c.d. futile non potrà prescindere dalle considerazioni in ordine al ruolo del consenso il quale dovrà necessariamente essere dimostrato come presente nonché liberamente prestato operando, in caso contrario, la normativa comune di cui all’art. 575 c.p.. Il tutto non potrà in ogni caso trascurare l’esigenza di una puntuale disciplina legale volta ad assicurare la correttezza del procedimento di formazione e manifestazione del consenso, attività che ci si auspica venga effettivamente compiuta dal quel legislatore ormai dormiente sul tema.

Ebbene, a seguito della camera di consiglio tenuta dalla Consulta lo scorso 15 febbraio 2022 a niente sono valse le argomentazioni rassegnate dai promotori. Il Supremo Organo si è infatti pronunciato ritenendo inammissibile il quesito referendario poiché attinente ad una normativa di natura costituzionalmente necessaria pertanto non abrogabile puramente e semplicemente (il richiamo è alla sentenza n. 49 del 2000).

La decisione assunta dalla Corte Costituzionale fonda il proprio assunto sull’indagine stessa in ordine alla legittimità della richiesta referendaria rispetto alla quale tiene a precisare come lo stesso Supremo Organo sia chiamato ad operare una valutazione della domanda nella sua portata oggettiva e nei suoi effetti diretti, per esaminare, tra l’altro, se essa abbia per avventura un contenuto non consentito perché in contrasto con la Costituzione (richiamo alla sentenza n. 17 del 1997) individuando in tale indicazione proprio l’ipotesi che ricorre nel caso in esame.

A parere della Consulta, quindi, posta l’inviolabilità del diritto alla vita – come confermato anche nella sentenza 242 del 2019 – è da escludersi che con la mera abrogazione, seppur parziale, dell’art. 579 c.p. si arrivi ad affermarne una piena disponibilità in capo al titolare in grado di prestare un libero consenso. L’ammissione del quesito referendario aprirebbe necessariamente ad una indiscriminata “liberalizzazione” del fatto posto che la normativa risultante non autorizzerebbe a ritenere che l’esenzione da responsabilità resti subordinata al rispetto della procedura medicalizzata prefigurata dalla legge attinente il consenso informato o ancora non menzionerebbe la necessità di agire entro i limiti dei principi enunciati dalla sentenza 242 del 2019 – argomentazioni, a contrario, sostenute dai promotori.

Quando viene in rilievo il bene della vita umana, dunque, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela; bilanciamento troppo debole, in caso si ammissione del quesito e successivo esito vittorioso del referendum.

Alla luce delle considerazioni svolte, la Corte Costituzionale ritiene quindi inammissibile la richiesta referendaria auspicando, al contempo, che l’organo legislativo assuma su di sé il compito di recepire le istanze popolari orami da troppo tempo in attesa di compimento.

Adele Antonini



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